domenica 22 febbraio 2004

Aprilia: resteranno solo gli scooter?

Io mi auguro che Noale riesca ad invertire la tendenza... ma le mie impressioni sono molto negative per il comparto moto: ho la netta sensazione, cioè, che se continua così nel breve volgere di pochissimo tempo, Aprilia torni ad essere produttrice solo di scooter.
Per vendere moto, infatti, occorre avere una gamma completa, competitiva e aggiornata, in grado cioè, di dare certezze e continuità anche alla rete di vendita, agli utenti, agli appassionati.

E questi obiettivi, ora, anzichè avvicinarsi si stanno allontanando... 
La politica commerciale degli ultimi anni scelta dall'Aprilia è francamente sconcertante. 
Pochi anni fa il Pegaso vendeva migliaia di unità. Anzichè innovarlo è stato lasciato invecchiare al suo destino. 
Non è stata creata una classe media che potesse essere il trait d'union tra le 125 e le 1.000. In compenso si sono spesi miliardi nell'acquisizione del marchio Laverda e nella realizzazione di un motore 450 per una nicchia come la supermotard.
E nel frattempo moto uscite nel 2000 (Falco) e nel 2001 (Futura) anzichè essere riposizionate (a causa di un prezzo di listino irreale) vengono tolte prematuramente dalla gamma...

Aprilia ha saputo creare una classe di maximoto ottime (per ciclistica, prestazioni, anche per una buona affidabilità) ma ha dimostrato di non saperle vendere. 
Ha sbagliato il posizionamento sul mercato, gli sconti sul nuovo hanno reso incerto il prezzo e di conseguenza la tenuta dell'usato e la commerciabilità dei modelli di Noale. Chi vuole "dare indietro" una Futura, una Falco, una Caponord è sempre più in difficoltà. E non perchè le moto non vadano bene (ANZI) ma a causa delle errate scelte commerciali della Casa. 
Questo comporta un'ulteriore perdita di quote di mercato (almeno per quanto riguarda il settore moto), diventando veramente un brutto circolo vizioso.

Anch'io, al prossimo acquisto, penso che sceglierò una moto probabilmente peggiore (la FUTURA credo sia una delle moto più indovinate mai prodotte) ma sicuramente più commerciabile... tutto questo è veramente triste. Anzi, fa quasi rabbia, ma temo che Aprilia abbia, ormai, solo un futuro da costruttrice di scooter



mercoledì 4 febbraio 2004

Omaggio a Nuto Revelli

Revelli è scomparso il 4 febbraio 2004

A lezione nel mondo dei vinti
Un intervento di Nuto Revelli in occasione del conferimento della laurea Honoris causa
di Nuto Revelli

La laurea Honoris causa che questa prestigiosa università mi ha conferito, mi inorgoglisce perché premia il mio impegno di cultore delle "fonti orali". Ma soprattutto mi intimidisce perché la maggior parte del merito delle mie indagini spetta agli autori delle storie di vita che ho raccolto, ai protagonisti del mio "mondo dei vinti".
Avevo 20 anni nel luglio del '39 quando conseguii presso l'istituto tecnico di Cuneo il diploma di geometra. La guerra era alle porte. Non per niente domandai subito di venire ammesso in un'accademia militare per imparare quel mestiere. Altro che geometra. 
Trascorsi due anni a Modena, in quella scuola severa come un seminario. Poi, con il grado di sottotenente, fui assegnato al II reggimento alpini della divisione Cuneense, che era appena rientrato dall'Albania.

Erano stanchi i miei alpini, dopo le esperienze non certo esaltanti del fronte occidentale e del fronte greco-albanese. Diventarono i miei "maestri". Dialogavo con loro, li ascoltavo. Mi intimidivano. Mi aiutavano a capire, a crescere. 
Avevano la famiglia, la casa al centro di tutto. Il loro unico sogno era una "licenza agricola".

Nel luglio del '42, con il V reggimento alpini della divisione Tridentina, fui inviato sul fronte russo. Conservo un ricordo preciso di quanto fosse immensa la mia ignoranza. Appartenevo alla categoria dei cosiddetti "colti" ma a malapena sapevo dove fosse collocata geograficamente l'Urss. Non mi rendevo conto di appartenere a un esercito di aggressori. I tedeschi vincevano anche per noi e li consideravo alleati preziosi. Andavo a migliaia di chilometri da casa mia, ad ammazzare o a farmi ammazzare, ma per che cosa? 
Per la "Patria". Quale "Patria"? Quella del fascismo, della monarchia, dei Savoia?

Quando si intuisce di essere ignoranti si compie già il primo passo per uscire dal buio. Decisi di tenere un diario. Mi ripromettevo di elencare i momenti più significativi dell'esperienza che stavo per vivere, di registrare i miei stati d'animo, miei sentimenti più intimi. Volevo imparare, volevo capire.

Durante il viaggio _ a Stalbtzy _ intravidi gli ebrei, quelli dei campi di sterminio dei quali ignoravo l'esistenza. Erano una sessantina di relitti umani - donne, uomini, bambini - scalzi, sporchi, coperti di stracci. Tutti marchiati con la stella gialla. Sembravano fantasmi. Si trascinavano lungo la nostra tradotta implorando un pezzo di pane. Odiai le due SS che li controllavano da lontano con i mitra spianati. 
E dissi a me stesso: "Questa è la guerra dei tedeschi, non la mia guerra". Ero ignorante, ma incominciavo a interrogarmi, a scegliere, a capire. 
Poi la vita di linea, sul Don, e nel gennaio '43 l'inizio della fine, il disastro. Ricordo tutto dei giorni e delle notti della ritirata, di quell'interno. 
Il 20 gennaio - terzo giorno della ritirata - nell'immensa piana di Postojali, nei 25 gradi sotto zero mi resi conto che avevo capito tutto. 
La nostra colonna - 30 o 40 mila uomini allo sbando - sostava da ore in attesa di ordini. Eravamo più morti che vivi. Maledii il fascismo, la monarchia, le gerarchie militari, la guerra. Avevo capito tutto, ma troppo tardi!

"Ricordare e raccontare", questa la parola d'ordine che mi portai nel cuore da quell' esperienza tristissima. Nei giorni dell'8 settembre ero a Cuneo e se scelsi istintivamente di lottare contro i fascisti e i tedeschi fu perché sentivo nella mia coscienza il peso enorme di quelle decine di migliaia di poveri cristi - la maggior parte "contadini in divisa" - mandati a morire per niente in quella guerra maledetta. Furono importanti i mesi che trascorsi nelle formazioni partigiane di "Giustizia e Libertà", con "maestri" come Livio Bianco e Duccio Galimberti. 
In quei venti mesi diventai adulto.

Soprattutto Livio mi era vicino. Io lo aiutavo a risolvere i problemi pratici, quelli militari. E lui mi insegnava l'abc della cultura politica, e a dare un senso all'esperienza che stavo vivendo.

Nel '46 sentii l'obbligo di gridare la mia verità. Pubblicai il mio diario di Russia. L'informazione era vaga, per non dire inesistente. Le fonti ufficiali tacevano. E le famiglie della provincia di Cuneo che avevano perduto un loro congiunto sul fronte russo, circa 7000, continuavano a illudersi che tutti gli "assenti" fossero vivi, prigionieri. 
Per l'autorità militare, quasi tutti gli "assenti" appartenevano alla vastissima categoria degli scomparsi nel nulla, dei "dispersi": cioè dei non vivi e non morti.

Nel '62, con la Guerra dei poveri, conclusi il mio discorso autobiografico. E decisi di dare una voce agli ex soldati, a chi aveva sempre dovuto subire le scelte degli "altri", ai pochi superstiti della prigionia di Russia. 
Pubblicai La strada del Davai. Poi L'ultimo fronte: raccolsi le lettere che i caduti e i "dispersi" avevano inviato alle famiglie dai vari fronti di guerra, soprattutto dal fronte russo. 
Erano difficilmente raggiungibili quei piccoli "archivi familiari", custoditi gelosamente dalle madri, dalle spose, dalle sorelle dei caduti e dei "dispersi". Bisognava acquisire quegli epistolari senza procurare nuovi traumi e sofferenze. Occorreva molta umiltà e prudenza nel chiedere.

Centinaia di lettere le acquistai da uno straccivendolo di Cuneo: l'autorità militare le aveva cedute come carta da macero. Non poche di quelle lettere le restituii poi alle famiglie perché erano preziose come tanti testamenti.

Ma assistevo al grande esodo dalla campagna povera, all'abbandono delle aree depresse della montagna e dell'Alta Langa, come risposta all'industrializzazione troppo rapida della pianura. Era un vero e proprio terremoto. Si contavano a migliaia i contadini, i montanari che diventavano manovali dell'industria. Un patrimonio di forze, esperienze, mestieri, destinato a disperdersi. 
Altro che "difesa dell'ambiente" e "governo del territorio". Con l'esodo indiscriminato, caotico, in non poche aree della nostra collina e della montagna si sfilacciava il tessuto sociale, si estendeva il deserto.

Raccolsi le storie di vita de Il mondo dei vinti e de L'anello forte per dare voce a chi era costretto, ancora una volta, a subire le scelte sbagliate degli "altri". Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell'ignoranza, come eravamo cresciuti noi della "generazione del Littorio". 
Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza libertà non si vive, si vegeta.

Nuto Revelli