domenica 10 dicembre 2006

Tra Welby e Binetti

L'editoriale di Furio Colombo su L'Unità del 10 dicembre 2006

Le dichiarazioni - che in politica sono azioni e sventolano come bandiere su posizioni occupate - si susseguono. Insieme compongono un quadro che disegna i confini morali dell´Italia. Mercoledì Gianfranco Fini, il vice senza diritto di successione nella casa di Berlusconi ma pur sempre vassallo di grande potere, dichiara: «Staccare la spina di Welby è omicidio». Vuol dire che se Welby ci mette un anno a morire soffocando ogni minuto che noi siamo qui a discutere, sono fatti suoi. In altre parole è corso al letto dell´uomo caduto nella morsa del dolore per dire «Va bene così» e anzi minacciando chi avesse intenzione di intervenire.
Giovedì la Sen. Binetti, collega di Senato e di schieramento e di sentimenti umani e civili, dice al Corriere della Sera: «È stata una bellissima giornata». Vuol dire che è riuscita a impedire, con la sua esuberante irruzione nella cosiddetta cabina di regia della legge finanziaria, che i reietti di quel sottomondo detto "coppie di fatto" possano godere di benefici fiscali nel triste evento della successione e di ciò che resta al sopravvissuto. In altre parole è come se la Sen. Binetti fosse corsa da quella signora, vedova di uno degli italiani che hanno perso la vita nell´attentato di Nassiriya, per cacciarla un´altra volta dai palazzi dello Stato in cui non è mai stata ammessa, dalle chiese che l´hanno relegata da sola in fondo.

Come ricorderete la signora Adele Parrillo non era una vera vedova ma nient´altro che una convivente del caduto Stefano Rolla.
Cioè nessuno, clandestina alla funzione funebre in chiesa e poi messa cortesemente ma fermamente alla porta al Quirinale, quando lo Stato ha celebrato i morti di Nassiriya. Morto o non morto in guerra, un convivente resta un escluso e la sua compagna si può respingere tranquillamente alla porta senza scandalizzare nessuno.
Franca Rame ha coniato, a sue spese per Adele Parrillo, una medaglia d´oro che le è stata donata in una piccola cerimonia privata. Ma su certe violazioni, come il non sposarsi (meglio se in chiesa) in Italia non si scherza: niente Chiesa e niente Stato.
«Ma che si sposino!», esclama esasperata la Sen. Binetti (evidentemente senza rendersi conto di parodiare Maria Antonietta) per liquidare le civili obiezioni di chi la intervistava (Angela Frenda, Corriere della Sera, 8 dicembre) sulle coppie di fatto. Ma prima aveva parlato di "felicità": «La mia felicità, la sensazione di aver ottenuto un successo» per avere impedito uno sconto di tassa al convivente che veglia il feretro della persona amata. La multa sul feretro imposta gioiosamente dalla Binetti a chi ama e a chi piange - ma non secondo le regole della Binetti - non può che generare un grande imbarazzo.

Infatti come distinguere la "certezza della pena" di Fini, che evoca l´ergastolo per chi si accosta al letto di Welby, e la "felicità" di Binetti che ha imposto con un colpo di mano la sua visione teologica, dal fondamentalismo che intende ignorare ogni confine fra vita e fede e impone che la fede sia legge?

È l´indifferenza a fatti veri, vere sofferenze, veri problemi, solo perché la descrizione (che è poi la rilevazione realistica) di questi fatti non coincide con la pala d´altare della buona morte da un lato (dove i raggi della fede e la mano dell´angelo spuntano come un invito celeste dalle nuvole scure) e con la descrizione della casa tenuta in ordine dall´angelo del focolare debitamente sposata in chiesa e solo per questo affidabile sposa e madre amorosa, persino se abita a Cogne. 
Sabato parla il Papa. E purtroppo le sue parole sono un intervento pesante, diretto, mai prima accaduto, sul governo italiano, solo sul governo italiano che ha annunciato una legge che esiste dovunque nel mondo e si forma sul rispetto giuridico, ma anche umano, dei diritti dei cittadini. I confini dell´Italia, a cui in esclusiva viene dedicata questa immensa pressione, si fanno più stretti.

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Possibile che sfugga del tutto la dimensione della carità che è stata, anche nei momenti più difficili, il grande canale di comunicazione fra credenti e non credenti, il messaggio di buona volontà con cui grandi cattolici e credenti anonimi hanno lasciato tracce di civiltà, di solidarietà, di comprensione e partecipazione attraverso confini che apparivano rigidi e impenetrabili, fra persone altrimenti condannate a sentirsi divise fra redenti e dannati? 
Che cosa è accaduto per indurre a calare mannaie così taglienti, per spezzare subito ogni legame con i miscredenti, dalla quantità della droga alla qualità dell´amore?
Non li imbarazza il fatto che ad ogni passo contro il diritto alla vita - dunque alla morte meno crudele - di Piergiorgio Welby, contro il rispetto che si deve a una vedova non sposata e che non è bello scacciare dalla chiesa, contro l´amore che esiste, che accade, anche se non è omologato, fra donne e fra uomini, verso cui è solitamente dedicato, a livelli incivili, sarcasmo e disprezzo, non li imbarazza il fatto che prontamente si schiera l´Italia peggiore, da Borghezio ai fascisti («meglio fascista che frocio») come si è visto nella "marcia di Roma" di Berlusconi?

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Ci sono domande - in questa storia in cui circola aria gelida e nessuna fraternità - che restano senza risposta e che devono averla. 
Con che diritto io posso dire a qualcuno «ti devi sposare», a due persone che non si devono amare, a Piergiorgio Welby che deve soffrire come un cane fino a quando un teologo illuminato (ci sarà, ci sarà) descriverà la fine del dolore come una benedizione necessaria, l´amore come un dono di Dio e la violazione delle regole delle coppie poca cosa (se non un diritto) rispetto agli strazianti genocidi del mondo a cui si dedica la metà della metà della metà della nostra attenzione?

Sono sorpreso che i senatori-teologi che siedono in Parlamento e battono con furore sul banco il martello delle proibizioni, non abbiano notato l´accortezza del Papa, almeno in una situazione che non riguarda l´Italia. 
Eppure Benedetto XVI ha fatto capire bene che un conto è discutere di Islam in una Lectio magistralis a Ratisbona, e un conto è una visita di Stato all´Islam in Turchia, dove vince non l´intento ad avere ragione ad ogni costo ma quello, molto più grande, di capire, di essere capito e di costruire un passaggio ad ogni costo. È un peccato, una ragione di tristezza, che un simile criterio non sia stato adottato per l´Italia né dal Papa né dai senatori che lo rappresentano.

Un po´ aridamente, quando si parla di coppie, i senatori-teologi evocano con fervore l´art. 29 della Costituzione italiana che dice: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». Giusto. Ma quell´articolo definisce un modo di stare insieme, non ne proibisce un altro. E non occorre essere giuristi per sapere che la libertà di stampa si estende a Internet, che non esisteva quando è stata scritta la Costituzione. E che, dunque, un tipo di unione non ne impedisce un altro. E poi basta il buon senso per capire che due persone che si amano non sono e non possono essere in alcun modo offesa, rischio o pericolo per la famiglia tradizionale. Dal punto di vista del fatto e del diritto, è una affermazione impossibile. Infine perché ignorare gli articoli 2 e 3 della Costituzione che sanciscono la parte grande e inviolabile dei diritti della persona?

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Forse un modo esemplare di uscire da un confronto così poco generoso fra parlamentari che si sono nominati custodi dell´ortodossia e parlamentari e cittadini comuni (fatalmente l´aridità dei comportamenti incuranti e insensibili genera aridità di risposte che possono essere ingiustamente offensive) è assumersi subito la responsabilità del dolore di Piergiorgio Welby. Alcuni di noi, coloro che non possiedono il codice delle cose ammesse o vietate, quando si tratta della pena di un altro e sentono l´immensa ingiustizia, la intollerabile offesa, devono assumersi in questo momento il compito di porre fine a quell´immenso dolore. Lo faranno formando un comitato di emergenza deciso a non abbandonare Welby nella sua «prigione infame». Adesso, subito.

Furio Colombo, editoriale su L'Unità del 10 dicembre 2006

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